Un’altra “piccola mostra preziosa”. La retrospettiva dedicata, nelle Sale 11 e 12 della “Pinacoteca dell’Accademia Albertina” di Torino, a Domenico Buratti (Nole Canavese 1881 – Torino 1960) rappresenta il secondo appuntamento del ciclo “Dalla scuola di Grosso”, curato da Pino Mantovani e da un Comitato Scientifico formato da Francesco De Caria, Angelo Mistrangelo e Donatella Taverna.
La mostra di Buratti segue quella di Venanzio Zola tenutasi nel mese di marzo, mentre per maggio è già in programma la terza incentrata sull’opera di Bartolomeo Baggio. Tre rassegne da Wunderkammer che vogliono ricordare tre eccellenti artisti operanti in Accademia nel ‘900 e formatisi alla Scuola di Pittura di Giacomo Grosso. Figlio di un falegname “stipettaio” e pittore di originale talento, ma anche illustratore di libri di poesie e poeta egli stesso, nonché – intorno agli anni Trenta – editore con il fratello Tino (insieme al quale, dopo averla rilevata, prosegue l’attività dell’“Editrice Fratelli Ribet” fino al 1932), Buratti entra giovanissimo all’“Accademia Albertina”, dove segue in modo particolare i corsi di Disegno di Giacomo Grosso e stringe forte amicizia con i coetanei Felice Carena, Cesare Ferro, Anton Maria Mucchi e Mario Reviglione. Inizia ad esporre nei primi anni del ‘900, allorché sue opere, di netta impronta simbolista, vengono presentate alla “Promotrice” di Torino. Messa bene in testa, negli occhi, nelle mani e nel cuore, la grande lezione di Grosso, Domenico Buratti “è, prima di tutto – scrive Pino Mantovani – un disegnatore; anche quando lavora di pennello, di colori smaltati e velature, di lacche e vernici”. E nulla, più del disegno, è in grado, secondo lo stesso artista, “di far diventare il corpo trasparente come acqua e leggero come l’aria”. Nell’attuale mostra alla “Pinacoteca dell’Albertina” (poco più di trenta le opere esposte e realizzate in gran parte fra il 1904 e il 1910), troviamo anche una decina di piccoli “paesaggi” raccolti sotto il titolo significativo di “Impressioni”; opere decisamente gradevoli giocate sul tratto rapido del colore nella ricerca di sintesi narrative che paiono scivolare spesso oltre la rigida sintassi del segno e delle forme. Una sorta di “bizzarria” pittorica, pur accompagnata da grande mestiere. Poiché la “vera pittura” per Buratti è rigore, è puntigliosità, è attenzione scrupolosa al segno che “prepara, imposta, sviluppa e conclude i processi delle arti visive”. Per questo l’indimenticato Marziano Bernardi recensendo, nel ’40, una sua mostra alla Galleria “Martina” scriveva: “Le sue più intime gioie Buratti deve averle godute nello scoprire come si dipinge un bel quadro piuttosto che nel contemplare il suo bel quadro dipinto”. Opere di grande scuola e perfezione accademica oltre che di trascinante forza introspettiva sono quindi, e soprattutto, i Ritratti, gli Autoritratti e le Scene di corale umanità che troviamo ben esposte in rassegna. Dai “Ribelli”, olio austero del 1904 che segna l’avvicinamento – anche attraverso l’impronta simbolista di Leonardo Bistolfi – a quel Socialismo umanitario che aveva improntato il “Quarto Stato” di Pellizza da Volpedo a quell’autentico capolavoro di maestria pittorica che è “Il gregge”ancora incentrato sui temi della denuncia sociale, acquistato nel 1905 alla “Promotrice” da Arturo Toscanini e andato purtroppo disperso dopo la morte del grande direttore d’orchestra. In mostra troviamo però esposti il bozzetto e otto imponenti disegni preparatori realizzati a matita su carta: disegni così perfetti e analiticamente studiati nella trascrizione drammatica di quel “gregge di bambini”, impietosamente curvi e deformi sotto la spinta degli adulti aguzzini, da rappresentare opere compiute e “in se’ concluse”. Notevoli, di stupefacente bellezza i ritratti e gli autoritratti. Al 1910 risale “Il babbo e la mamma”, posteriore di quattro anni a “La madre”, che tanto piacque a Grosso per le “ricerche di colore – ambiente” e a Bistolfi perché “concepito come una scultura nelle pieghe soprattutto delle vesti grigio-pietra”. Di sontuosa rinascimentale armonia è ancora “Il manto viola”, ritratto del ‘22 di grande formato della moglie Vittoria Cocito, anche lei pittrice allieva del Ferro e rappresentata con un mazzo di primule fra le mani; accanto un imponente “Autoritratto” della stessa Vittoria di cui attrae il bianco candore del lungo abito e l’atmosfera di solenne ieraticità. E infine i vari “Autoritratti” di Domenico. Giovane, appena ventiseienne in quello dal “berretto rosso” del 1907 fino all’“Autoritratto con paesaggio invernale” del ’50. Buratti era allora prossimo ai settanta e in una sua poesia, malinconico controcanto letterario al dipinto, così scriveva: “Ci somigliamo alle fattezze/ o inverno, scabre, alle cortezze grezze/ fra turni di sonno e turni/ di sogno, lungo giorni notturni…”.
Gianni Milani
“Domenico Buratti”
Pinacoteca dell’Accademia Albertina, via Accademia Albertina 8, Torino; tel. 011/0897370 – www.pinacotecalbertina.it
Fino al primo maggio
Orari: tutti i giorni, escluso il mercoledì, dalle 10 alle 18