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Partiamo dal titolo. Che è sintesi perfetta dell’intera mostra, la prima personale torinese (evento “blockbuster” destinato a portare sotto la Mole turisti a gogò, almeno si spera), dedicata al grande artista catalano, fra i massimi interpreti del Novecento, sperimentatore – anche profetico e sempre sui generis – delle principali correnti artistiche del secolo come il Dadaismo, il Surrealismo e l’Espressionismo.

Due e solo due le parole chiave proposte dal titolo della rassegna: Sogno e Colore. E il sogno, la piena libertà di volare in universi che paiono prendersi gioco delle sterili stereotipate realtà del mondo “vero”, c’è proprio tutto nelle 130 opere (quasi tutti oli di grande formato) portate in rassegna e a firma – come ebbe a scrivere di Joan Mirò il non meno grande Jacques Prévert – di “un innocente col sorriso sulle labbra che passeggia nel giardino dei suoi sogni”. E poi il colore. Che non conosce veti pur ammettendo paradigmi grammaticali, istintivo, magico miracolo dell’anima che cammina da solo per vie senza nome e senza mete obbligate. Inutile chiedercene il “perché”. Si parte sempre dal nero – sosteneva l’artista – poi viene il rosso per bilanciare il nero, quindi il verde per bilanciare il rosso. “Ma la chiave di un’opera  risiede sempre per lui nella spontaneità iniziale, nel primo istintivo approccio alla tela”. Caratteri che si accentuano e si esasperano nell’ ultimo periodo creativo di Joan Mirò (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983); proprio in quei trent’anni (dal ’56 all’’83), documentati nelle sale espositive di Palazzo Chiablese a Torino, grazie al generoso prestito della “Fundaciò Pilar i Joan Mirò” di Maiorca, nata nell’ ’81 per volontà dello stesso Mirò e che conserva una collezione donata dall’artista e dalla moglie Pilar Juncosa di oltre 5mila opere realizzate nell’isola delle Baleari.  Che fu l’isola della madre e dei nonni materni, dove l’artista si trasferì nel 1956 e che per lui fu luogo di grande ispirazione e produzione, oltreché particolarmente amato, insieme a Mont-roig del Camp, in Tarragona, dove in gioventù trascorse un lungo periodo di convalescenza a seguito di un esaurimento nervoso che l’attività pittorica a tempo pieno (lavorava prima come contabile in una drogheria) servì indubbiamente a risolvere. “A Maiorca- sottolinea lo stesso presidente della Fundaciòl’artista libera uno spirito innovatore, quasi selvaggio”. Trasgressivo, contestatore, ferocemente autocritico, rifiuta (e in qualche caso distrugge) la sua produzione precedente; nasce in lui il forte bisogno di ascoltare l’istinto e solo l’istinto, di abbandonare i moniti della ragione, di guadagnare nuovi percorsi creativi arrivando perfino a stendere matericamente il colore con le dita e con  i pugni spalmando gli impasti su compensato, cartone o materiale di riciclo. A Maiorca, Mirò lavora a ritmi frenetici. E nascono capolavori  assoluti, presenti nella mostra torinese (organizzata dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, insieme ai Musei Reali di Torino e al Gruppo Arthemisia con la curatela artistica di Pilar Baos Rodriguez), come la “Femme au claire de lune” (1966), “Oiseaux” e “Femme dans la rue” (1973): donne, uccelli, paesaggi monocromi e ancora sculture realizzate con materiali i più diversi i più “strani”, collage e “dipinti-oggetto”. Una sperimentazione continua. E totalmente libera. Sorda alle voci e agli interessi esterni, profondamente radicata nei colori e nello spirito alla sua Maiorca, dove si fece anche costruire dall’amico e architetto narezep Lluìs Sert un nuovo atelier originalissimo, su due piani e dalla forma sinuosa, ricostruito scenograficamente all’interno degli spazi di Palazzo Chiablese con gli oggetti originali ( dai pennelli, alle tavolozze e alle tele enormi fino alle calligrafie giapponesi), lasciati al loro posto così com’erano, dal giorno della morte dell’artista. Articolato in cinque sezioni  - da “Radici” al “Vocabolario di forme”, passando per le “Principali influenze  artistiche di Mirò” a “Maiorca. Gli ambienti in cui creava” e a “La metamorfosi plastica” - l’iter espositivo ci racconta, all’interno di narrazioni improbabili e visionarie, del suo profondo legame con la natura e con le culture primitive (“la pittura è in decadenza – affermava – dall’arte delle caverne”), con Antonio Gaudì sua principale fonte d’ispirazione, così come con la cultura Zen e i versi degli Hai-ku giapponesi e dei maestri calligrafi. Il tutto e sempre sotto il segno della più totale libertà espressiva: regola prima anche nella pratica dell’attività scultorea e grafica così come, nella fase finale, in quel raccontare della  magia del cosmo, delle stelle e dei pianeti. In un firmamento irraggiungibile, immaginato o desiderato. Senza mai demordere, perché “più lavoro – sosteneva -  e più mi viene voglia di lavorare”. E proprio qui sta il segreto. L’incantevole essenza e la funambolica poesia dell’arte di Mirò.

Gianni Milani

“Mirò! Sogno e colore”
Palazzo Chiablese, Piazzetta Reale, Torino, tel. 011/024301; www.mostramirotorino.it
Fino al 14 gennaio
Orari: lun. 14,30 – 19,30/ mart. merc. ven. sab. e dom. 9,30 – 19,30/ giov. 9,30 – 22,30

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