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Rivoli (Torino).Il gioco è una cosa seria”, era solito ripetere a commento delle sue immaginifiche e geniali “stramberie” il grande Bruno Munari. Parole che ben inquadrano nella sua multiforme creatività l’opera di uno dei massimi protagonisti della scena artistica novecentesca e  che ci tornano alla memoria di fronte a ciò che troviamo scritto, brevi manu, da Sergio Saccomandi su un semplice foglio bianco riposto in bacheca e in bella vista fra le circa quaranta opere – dipinti e grafiche – ospitate fino a domenica 21 gennaio negli spazi della Casa del Conte Verde, in via Fratelli Piol a Rivoli.

Classe ’46, torinese (ma da oltre trent’anni impegnato a inventarsi una nuova vita sui colli canavesani di Barbania), Saccomandi scrive nero su bianco: “L’arte è un gioco preso seriamente e non una cosa seria presa  per gioco”. Saltellanti giravolte di parole assai affini a quelle di Munari se l’arte, per l’appunto, è da intendersi come “gioco”. Così come per l’eclettico artista milanese aveva da essere e com’è per Saccomandi. Un gioco dove finzione e realtà – sempre borderline - si intrecciano con garbata misura, ma con porte portoni e finestre tutte spalancate all’invenzione alla fantasia alla magia di voci e di suoni che arrivano non si sa da dove né da chi per raccontare mirabilia cariche di silente poesia e di mistero. Il “mistero nelle cose” appunto, come suggerisce il titolo della rassegna di Rivoli dedicata  a Sergio Saccomandi, allievo all’Accademia Albertina di Paulucci e Calandri e già titolare della Cattedra di Discipline Pittoriche presso il Liceo Artistico di Torino; pittore sicuramente fra i più interessanti e raffinati nel panorama dell’arte contemporanea (al suo attivo più di sessanta personali e moltissime collettive a livello nazionale e internazionale), ma anche da oltre quarant’anni “uomo di teatro”. Particolare non da poco per capire a fondo la sua  pittura. Regista, scenografo e, lui stesso, attore (è fra i fondatori nel ’75 del Gruppo Teatro Specchio di Cirié), Saccomandi considera il teatro come il suo “amore clandestino”, in perenne ma benefico conflitto e confronto con la pittura, “l’amore di sempre”. Ecco allora i paesaggi (quelli canavesani soprattutto, ma anche gli arditi “capricci veneziani”) che trasudano mestiere e processi di segno e colore di impronta rinascimentale nella certosina perfezione e nell’assoluto rigore della complessiva composizione pittorica. Ma realtà assolutamente “spaesate”, surreali e improbabili, se fluttuanti su armoniose teorie di nuvole e cieli plumbei o su geometriche colline innevate o ancora su vuote e sontuose poltrone (il ciclo delle “sedie”) che tanto ricordano “Les Chaises” di Ionesco, pièce teatrale portata per altro dallo stesso artista in palcoscenico. Paesaggi come pagine di narrazione popolate di “strane”– pur se rigorosamente concrete e identificabili – presenze in primo piano, messe lì a bella posta per tirare la volata prospettica al nucleo centrale della scena: ambigue contraddittorie presenze che, di volta in volta, possono essere un gatto, un rospo, il muso dolce di una mucca che fa capolino a margine di un quadro, oppure un gallo, un oggetto d’arredo, segnali stradali accanto a materassi usurati, così come un cavolo o un uovo rotto “col tuorlo che pare galleggiare sull’albume” accanto a una caraffa che porta lo sguardo su una zuppiera emersa da un nero fondale (quinta teatrale) traboccante di spaghetti (o che altro?). Siamo davvero al “teatro dell’assurdo”. Tenuto in piedi dalla bravura di un “burattinaio” di eccellenza che cerca finanche, ma invano, d’ingabbiare la scena attraverso i virtuosismi di una linea bianca tracciata (parrebbe) per contenere in improbabili geometrie le forme nette, contestualmente inspiegabili, di un rompicapo per il quale non necessita poi tanto trovare il bandolo della matassa. Va bene così! Troppo grande è la suggestione di universi pittorici che ci fanno incredibilmente e piacevolmente volare in alto. Sù sù. Senza barriere né vincoli di confine. Totalmente liberi. In fondo, racconta lo stesso Saccomandi, “dipingere è come partire, buttare giù tutta la zavorra, essere leggeri leggeri, avere in tasca solo il biglietto dell’andata”. Per il ritorno, se proprio vogliamo, tocca a noi pensarci.

Gianni Milani

“Il mistero nelle cose”
Casa del Conte Verde, via Fratelli Piol 8, Rivoli (Torino), tel. 011/9563020
Fino al 21 gennaio
Orari: mart. - ven. 16/19; sab. – dom. 10/13 e 16/19